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Intellectual Property

I am Waiting for my Business Model

Si guarda alla musica online nella speranza di avere qualche indicazione sul futuro dei libri online, e quindi degli ebook.

Un libro ed un brano musicale sono cose diverse, certo, però… insomma, non devo spiegarlo, o meglio, forse non so spiegarlo, ma i due fenomeni hanno troppe cose in comune per non  attirare la curiosità di chi vende, o studia i problemi giuridici del come vendere, “contenuti digitali”.

Così, funziona e, se funziona, come funziona, il “business model” di un servizio come Spotify o Pandora (non accessibile dall’Italia)? Servizi di successo e relativamente recenti, non gemmati dalle grandi piattaforme di distribuzione dei soliti noti.

In questi giorni alcuni autori hanno protestato: da questo modello non si ricava niente! Ma ovviamente la realtà è più complessa. Michael Degusta dà un po’ di numeri qui.

A me resta il dubbio che se ne riesca mai a venire a capo, dato l’intreccio di interessi, leggi, organismi, novità tecnologiche che se ne trae. Se il legislatore un pò dovunque non riesce ad intervenire sulla materia è perché è davvero difficile sbrogliare una simile matassa.

Ma…  The Show Must Go On, e quindi gli affari si regolano da soli… grazie agli accordi tra privati e con l’effetto giungla (con leoni ed agnelli) tipico delle fasi di transizione come queste.

Temo però una “transizione permanente”: la tecnologia avanza più rapidamente della stessa capacità di gestirne gli effetti in termini di bilanciamento degli interessi secondo giustizia e pubblico interesse.

Il giurista, in fondo, amerebbe un po’ d’ordine. Ma credo debba rassegnarsi ad un ragionevole Caos.

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Antitrust

EU Antitrust: Commission’s inspections in Internet connectivity services

Tra le righe del comunicato stampa della Commissione sembra potersi leggere che la UE stia verificando possibili abusi riguardanti la fornitura di connettività, ma dal lato dei “content providers”.

Che sia in gioco la net neutrality?

Internet players interconnect with each other through a combination of wholesale services to cover all possible Internet destinations. Internet connectivity allows market players (e.g. content providers) to connect to the Internet so as to be able to provide their services or products at the retail level. This service is crucial for the functioning of the Internet and for end users’ ability to reach Internet content with the necessary quality of service, irrespective of the location of the provider.

 

 

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Case Law Contracts Intellectual Property Piracy Uncategorized

Secondary Market for Ebooks? The ReDigi Case.

Una delle difficoltà nell’affrontare il tema della pirateria digitale sta nel fatto che si imposta il problema appunto partendo dalla pirateria digitale. Il che mi sembra un errore. L’altra faccia della medaglia, come per la luna, resta così nell’ombra.

Prima di parlare di pirateria, cioè di quello che non si può fare, occorrerebbe interrogarsi su quello che si può fare, cioè su quali siano gli usi e le facoltà legittime del possessore di un MP3 o di un ebook. Poiché le risposte a questa domanda sono complesse, si evita spesso di darle e si passa ad individuare quello che è vietato prima ancora di avere ben stabilito quello che è lecito.

Invertendo l’approccio al problema balza agli occhi una scomoda verità. Lo stato dei rapporti tra chi distribuisce online contenuti digitali (mi limito qui ad ebook e file musicali, come quelli in formato MP3) e chi li acquista è in condizioni di notevole incertezza (certezza del diritto). Quello che si compra scaricando un ebook o un MP3 non è chiaro. Anche per acquisti che potrebbero non superare il valore di un euro, la disciplina dei rapporti tra le parti è affidata a pagine e pagine di condizioni contrattuali contorte, di difficile interpretazione per un giurista, figurarsi per un essere umano.

Condizioni contrattuali che poi, a loro volta, andrebbero valutate alla luce del contesto normativo sui diritti di proprietà intellettuale, dei diritti del consumatore e, non ultimi, dei diritti fondamentali. Infatti, nessuna clausola delle condizioni di contratto predisposte dalla Apple, da Google, Amazon o altro gestore di piattaforme per la distribuzione di contenuti digitali potrebbe comunque porsi in contrasto con norme di legge imperative. S’aggiunga, per completare il quadro, che queste norme di legge possono variare, ed in effetti spesso variano, da paese a paese, e non è certo un mistero che internet non semplifica l’individuazione della legge applicabile alle transazioni che avvengono tramite essa (“internet” la vedo come sostantivo femminile).

Venendo alla ragione di questo mio post, uno dei temi più affascinanti e foriero di novità è quello della rivendita dei contenuti digitali da parte di chi li abbia legittimamente acquisiti. Il “capitale” da tutti noi investito in contenuti digitali di “valore permanente” va accumulandosi anno dopo anno e la questione del “riuso” diviene sempre più pressante. In questo discorso la pirateria non c’entra. C’è un legittimo acquirente (e già parlare di “acquirente” può essere un errore, ma non saprei al momento come evitarlo) e bisogna capire se tra i suoi diritti vi sia o meno quello di rivendere il file musicale o l’ ebook per il quale ha pagato un prezzo. Per come la vedo, sarebbe da individuare prima l’ambito delle sue “libertà”, e quindi, di conseguenza, il quadro dei “divieti” a cui va incontro.

Si dirà: basta leggere le condizioni d’acquisto. Risposta incompleta. Le condizioni spesso parlano di “licenze” e di “licenziatari”, ma menzionare più volte queste “paroline” in 10 e oltre pagine di contratto online non è sufficiente a dirci quale siano gli effetti giuridici di quel contratto. E tanto meno quali siano tutti i diritti del licenziatario, o il vero contenuto della licenza, secondo -non solo e non tanto- il contratto, ma secondo la legge applicabile (l’ordinamento giuridico), che ovviamente potrebbe non accontentarsi del “nomen iuris” (le “paroline”) attribuito alla transazione da chi (con quel “nome”) ha inteso disciplinare la stessa secondo i propri interessi.

Di alcuni di questi problemi iniziano ad occuparsi le Corti in giro per il mondo, mentre i legislatori latitano.

E’ il caso del Giudice R.J. Sullivan della Corte distrettuale di New York, ed è il caso del Tribunale tedesco di Bielefeld (Landegericht Bielefeld). Il primo ha deciso una causa tra la Capitol Records (EMI) e la ReDigi Inc., l’altro una causa tra la Federazione tedesca delle associazioni dei consumatori e una piattaforma di distribuzione di ebook. Di questa seconda, importante, decisione spero di riuscire a dare conto in un prossimo post.

Nel caso ReDigi la Corte statunitense ha accolto il ricorso per un “summary judgment” proposto dalla Capitol Records (CR), e diretto a far dichiarare illegale una parte dell’attività di ReDigi a causa della violazione dei diritti esclusivi di riproduzione e di distribuzione di file MP3, detenuti da CR.

ReDigi afferma di aver messo in piedi il primo (lecito) mercato secondario per i file musicali. File di “seconda mano”, da scambiare tra gli utenti del suo servizio. Tra non molto, afferma, avvierà il servizio anche in Europa, e lo estenderà agli ebook (si vedano, per gli ebook, gli ultimi secondi del video di presentazione del servizio).

Citata in giudizio dalla CR, ReDigi ha sostenuto che la prima versione del suo servizio (.01), cioè quella sotto esame da parte della Corte americana, non violava il copyright di CR. Un suo software analizza i file musicali presenti sul computer dell’utente e “idonei” ad accedere al servizio. Sono idonei (solo) quelli scaricati da Itunes o acquistati di seconda mano tramite ReDigi. Un altro software li “trasferisce”, byte dopo byte, in pacchetti, su di una piattaforma cloud (cioè un server sotto il controllo di ReDigi in Texas). “Trasferisce”, sottolinea ReDigi, non “copia”. Alla fine del “trasferimento”, sul computer dell’utente (e apparecchi collegati allo stesso) non c’è più il file, che si trova nella nuvola. Ciò non avverrebbe, sempre secondo ReDigi, con la creazione di una nuova copia ed il delete della vecchia copia presente sull’hard disk dell’utente, ma attraverso un vero e proprio “trasferimento” (degli atomi: la tecnologia è chiamata: Atomic Transaction) da un luogo all’altro. A quel punto, gli altri utenti collegati alla piattaforma possono comperare il file “usato”, trasferito sulla nuvola, ad un prezzo scontato e, sempre dalla nuvola, trasferirlo sul proprio hard disk. Al termine dell’operazione, il file resterebbe sempre uno, anche se ha cambiato titolare, quindi non ci sarebbe stata “riproduzione” del medesimo (ReDigi trattiene una commissione sugli scambi).

Al giudice americano la distinzione tra “trasferimento” e “copia” è sembrata di carattere puramente semantico. Quello che conta, ha detto, è il risultato finale: un file era fissato sull’hard disk A (dell’utente iniziale), poi risulta fissato sull’hard disk B (il server cloud) e poi ancora sull’hard disk C (del compratore dell’usato sicuro), e questo equivale ad una riproduzione (multipla). Il problema è che queste riproduzioni non sono autorizzate, quindi ReDigi ha violato il copyright di CR.

ReDigi ha provato ad invocare in suo favore anche l’esenzione per “fair use” (sorta di liberatoria per “uso personale”) e la “first sale doctrine” (secondo cui, in breve, dopo l’immissione in commercio – prima vendita – di un bene soggetto a copyright, il titolare può rivenderlo senza autorizzazione del titolare del copyright). Ma le sue argomentazioni non hanno avuto successo: “fair use” e “first sale doctrine” non trovano applicazione quando a monte c’è una “riproduzione” per fini commerciali, non autorizzata.

Le questioni sollevate dal caso sono assai interessanti e rilevanti. Vi risparmio tutto il percorso logico-giuridico, che si può agevolmente seguire leggendo la sentenza.

Nonostante la batosta, ReDigi (che ha proposto appello), non s’è scoraggiata. Nelle more del processo aveva già lanciato la versione 02. del proprio servizio. In questo nuovo modello, se ho capito, l’utente può comprare il file da Itunes mediante un’applicazione offerta da ReDigi. Il file viene sin dall’inizio scaricato da Itunes direttamente sulla nuvola di ReDigi, intestato all’account dell’utente stesso. Sull’hard disk dell’utente non arriva, oppure (e qui confesso di non avere capito bene) arriva solo dopo essere stato originariamente “fissato” sulla nuvola in nome e per conto dell’utente (oppure arriva solo in streaming: è questo che non ho ben capito). L’hard disk dell’utente diventa, tutt’al più, un secondo “device”, che la licenza dell’utente con Itunes consentirebbe di utilizzare. A quel punto il file può essere messo in vendita sul mercato secondario gestito da ReDigi, e le transazioni su tale mercato (server nuvola di ReDigi) avvengono senza trasferimenti del file: passa la titolarità della licenza, non il file. Chi compra l’MP3 “usato” lo mantiene sulla nuvola di ReDigi, dove sin dall’inizio è stato. Il venditore non ha più accesso allo streaming e il software di ReDigi controlla che nel suo hard disk non vi siano copie (sugli hard disk collegati, non su altri offline, ovviamente).

Non so se ReDigi .02 riuscirà a convincere i giudici di avere così superato i problemi giuridici di ReDigi .01. Forse, se raggiungerà un accordo con le major, non avrà bisogno di difendersi in giudizio.

Nel frattempo, ha annunciato di avere stabilito una joint-venture con Apple (e quindi con Itunes), di avere in corso accordi con alcuni autori (cioè gruppi musicali e cantanti che consentono la distribuzione delle loro opere tramite la sua piattaforma e ricevono una royalty per ognuno dei successivi “trasferimenti” di licenze) e… di avere intenzione di estendere il modello anche agli ebook.

Anche Amazon ed Apple brevettano tecnologie per realizzare “marketplaces for used digital objects“. E’ un mondo in rapido movimento. Stay Tuned!

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Extra

Big Tent Roma 2013 (extra)

Sono stato a Big Tent Roma 2013, evento organizzato da Google sui contenuti digitali e la cultura.

Tra le cose che mi hanno colpito (oltre a poter ascoltare Vint Cerf  “dal vivo”) c’è stato l’intervento del dott. Marco Polillo, presidente di Confindustria Cultura nonché presidente dell’AIE. ll ministro Bray aveva appena finito di accennare – pacatamente –  alla sfida posta dalla rete (e quindi da Wikipedia) alle enciclopedie “classiche” (e storiche, come la Treccani), quando il dott. Polillo è intervenuto per spiegare alla platea che Wikipedia non è come la Treccani perché è piena di errori. Ed ha portato un esempio personale, illuminante e illuminato: la pagina di Wikipedia che riguarda la  sua casa editrice (di cui, me ne scuso, mi è sfuggito il nome) è tutta sbagliata, ma lui a bella posta non la fa correggere, quale solenne monito e riprova di come Wikipedia non sia attendibile. Ha aggiunto che il self-publishing non ha futuro, perché – in buona sostanza – è il rifugio degli analfabeti con la voglia di autopubblicarsi.

Ma è l’ostilità verso Wikipedia che mi ha colpito di più. La Treccani non credo parlerà mai della casa editrice del presidente dell’AIE, Wikipedia invece lo fa (e qui sta una delle differenze fondamentali tra Wikipedia e le enciclopedie classiche) ma il dott. Polillo non ringrazia, anzi… li lascia sbagliare… così imparano. Auguri!

Cambiando argomento, non sapevo invece che Civiltà Cattolica fosse la rivista italiana più antica tra quelle ancora attive (1850, pre-unitaria). E’ oggi diretta da padre Antonio Spadaro S.J, ed ha una versione digitale per tablet. Padre Spadaro m’è sembrato tra gli ospiti più avveduti dell’evoluzione verso il digitale della carta stampata e della cultura in generale.

Per finire,  Vinton Cerf.  Ha ricordato Darwin. Ci sono – ha detto –  solo due possibilità (“options”): adattarsi al nuovo ambiente, o estinguersi.

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Contracts

Contratti On-Line, Point and Click e Clausole Vessatorie

Il diritto dell’Unione Europea chiede che le normative degli stati membri non ostacolino, anzi rendano effettiva, la possibilità di stipulare contratti online.

Tuttavia, chiunque si trovi a predisporre un sito di e-commerce conosce i dubbi e le incertezze cui si va incontro quando si cerca di stabilire ciò che si può validamente pattuire con i propri clienti, quando queste pattuizioni saranno effettive, come provarne l’esistenza, ecc.

Per tacere degli obblighi relativi alla informativa sulla privacy e gli oneri cui si va incontro per predisporre in modo adeguato la protezione dei dati personali dei clienti che inevitabilmente si devono raccogliere e trattare.

Del tema delle clausole vessatorie si occupa lo scritto di Tiziana Ventrella che qui segnalo, dal sito del Ceradi della Luiss-Guido Carli. Offre una soluzione ragionevole, per l’interpretazione del complesso di norme applicabili alla materia e riporta per esteso la giurisprudenza delle corti di merito sul tema.

Nei contratti on-line è lo stesso concetto di vessatorietà che andrebbe rivisitato. Ad esempio, la facoltà unilaterale (per il predisponente delle condizioni) di sospendere l’esecuzione del contratto è considerata dall’art. 1341 c.c. vessatoria, e quindi soggetta ad una disciplina di particolare rigore (specifica approvazione per iscritto). La norma è nata ben prima dell’internet e non considera la nuova realtà della prestazione di beni e servizi in rete. Sospendere un account, una prestazione, è una facoltà che chi offre servizi in rete ha necessità di garantirsi, con larga discrezionalità. Ha di fronte utenti del tutto sconosciuti, molti, la maggior parte, in buona fede, altri, pochi per fortuna, assai meno. Può anche avere di fronte un “bot”, un programma che simula il comportamento di un contraente umano. Rispetto ad attività che si sospetta possano essere anomale, o maliziose, la possibilità di sospendere in via preventiva e precauzionale un account o la prestazione di un servizio è fondamentale, e spesso serve a garantire la stessa funzionalità del sito web, e indirettamente la corretta prestazione dei beni e dei servizi in favore degli altri utenti. Insomma, la posizione di “contraente forte” del predisponente rispetto all’utente “parte debole” e meno consapevole, sarebbe da riconsiderare con attenzione, per trovare equilibri più confacenti alla mutata realtà dei rapporti on-line.

Ci sarebbero tante cose importanti, semplici, da fare per un legislatore attento. Migliorerebbero la certezza del diritto e la “vita economica” di tante imprese. Spesso piccole, o individuali, desiderose soltanto di vendere, di stare sul mercato senza troppi mal di testa, avvocati, incertezze, e senza voler “vessare” proprio nessuno…

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Intellectual Property Piracy

Il Pirata degli Ebook è il Pirata più ragionevole

Uno studio svolto da Kantar Media e commissionato dall’OFCOM (l’AGCOM britannico) ha avuto un certo risalto perché conferma, tracciando il comportamento online ed offline di un campione significativo di persone dai 12 anni in su, che i pirati più crudeli sono anche i migliori acquirenti di contenuti digitali.

Coloro che consumano più file illegali, sono anche coloro che consumano il maggior numero di file legali e, più in generale, che spendono di più per acquistare contenuti online ed offline.

Insomma, come è stato ben detto ad esempio da Francesco Magnacavallo sul Fatto Quotidiano, “i pirati sono i migliori clienti”.

Lo studio dimostra anzi che i più pirati tra i pirati, sono anche i migliori clienti tra i clienti (i top 20% in termini di pirateria sono in assoluto i top buyer, anche tra chi non scarica illegalmente nulla).

L’analisi è dettagliata, e prosegue ad “ondate”, cioè continua a tracciare il campione di utenti nel tempo e ad intervalli regolari, specializzando le metriche e approfondendo le indagini e le correlazioni.

E’ anche interessante perché include gli ebook, oltre i tradizionali musica e film.

E per gli ebook emerge un dato notevole sul pirata “tipo”. Lo studio divide infatti i pirati in quattro categorie, a seconda delle diverse attitudini (dichiarate): Justifying Infringers, Digital Transgressors, Free Infringers e Ambiguos Infringers.

La categoria dei Justifying Infringers è quella con i maggiori scaricatori illegali di ebook rispetto alle altre.  Questo tipo di pirata si distingue per il fatto che accampa una serie di “buone ragioni” (per lui) per giustificare il proprio comportamento. Ritiene di spendere già a sufficienza per i contenuti che consuma (ed in effetti registra la maggiore quota di acquisti legali offline). E’ la categoria che maggiormente ama “testare” prima di comprare ed è la più sensibile a spostarsi sull’acquisto legale quando rappresenti una buona alternativa rispetto al consumo illegale. Insomma, si tratta di pirati ragionevoli, ottimi consumatori di contenuti legali e ben disposti a non scaricare illegalmente se l’acquisto legale fosse offerto ad un prezzo da loro reputato “corretto”.

Sembrano tutte buone notizie per gli editori di ebook. Con i Justifying Infringers si può “ragionare”, mentre con i Digital Transgressors e i Free Infringers c’è meno da sperare: i primi sono quelli che provano meno rimorsi a scaricare illegalmente, mentre i secondi dichiarano di essere pirati semplicemente perché non vogliono spendere nulla (ed in effetti risultano essere anche quelli che acquistano meno contenuti legali).

In generale, la maggior parte dei pirati afferma di essere disposta a convertirsi, ma a queste principali condizioni (nell’ordine):

a)        Se fosse loro offerto un servizio lecito, ma più economico

b)        Se tutto quello che cercano fosse disponibile per l’acquisto legale

c)        Se fosse possibile sottoscrivere un servizio in abbonamento per quello che cercano.

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Uncategorized

Open Government Data: Documents from Libraries, Museums, Public Archives

The public sector produces and preserves a significant amount of information. The accessibility and re-usability of the same by the private sector is today a strategic resource of growing and extraordinary value.

The European Parliament on 13th June last gave the go-ahead, with some changes, to the proposal for the amendment of Directive 2003/98/EC of the European Parliament and of the Council, of 17th November 2003, on the reuse of public sector information.

In the cultural sector, the proposal to amend the Directive, which at this stage should be implemented in the Member States within two years, could have a major economic impact, making valuable content available for commercial use. Europe is a treasure trove of a thousand of years of culture and creation, so making its use and enjoyment freer is an opportunity that could make a difference to the Old Continent.

The wording of the new Directive is – as usual – the result of some compromises that do not make it any easier to read, however, for the publishing industry, especially the digital one, I note these points that are covered by the upcoming legislative changes:

– The reusability of documents held by public bodies should become the rule and non-reusability the exception;

– The scope of the previous Directive has been extended (with its requirement for accessibility and reusability of documents) to libraries (including those at universities), museums and public archives.

–  “To facilitate reuse, public sector bodies should, where possible and appropriate, make documents available through open and machine-readable formats and together with their metadata, at the best level of precision and granularity, in a format that ensures interoperability

– In principle, the cost of reproduction of documents to be reused and charged to users should not exceed the “marginal cost” of the reproduction in question;

– What remains strong is what is already provided in the area of “licenses”: the public may submit the reuse of documents to licensing, but the licenses must be provided in “standard” and “digitised” formats. What is important in this respect is the following principle (i.e. “Considering” in the preamble to the Directive): “(26) In relation to any re-use that is made of the document, public sector bodies may impose conditions, where appropriate through a licence, such as acknowledgment of source and acknowledgment of whether the document has been modified by the re-user in any way. Any licences for the re-use of public sector information should in any event place as few restrictions on re-use as possible, for example limiting them to an indication of source. Open licences available online, which grant wider re-use rights without technological, financial or geographical limitations and relying on open data formats, should play an important role in this respect. Therefore, Member States should encourage the use of open licences that should eventually become common practice across the Union”.

– Exclusivity agreements relating to the digitisation of analogue documents held by libraries, museums, archives, etc. should not exceed a period of 10 years (but for exclusive arrangements already in place for digitization, the Directive allows certain exemptions). In essence, after 10 years, the digitized content that is in the public domain also becomes so in digitized form.

– The Directive does not adversely affect the intellectual property rights system in force which is applicable to the documents in question (both for third party rights and those of public bodies subject to the obligations of access and reusability covered by the Directive).

Now, as we can see, the intentions are good, but we will need to see the actual methods of implementation at national level. I would remind you here that the Guidelines do not create rules which are directly and uniformly applicable in the national legal systems. The Member States need to transpose them by introducing them into their own legislation, linked to the Directive in the goals to be achieved.

For a more detailed analysis, please read Ton Zijlstra and Janssen Katleen in their blog at the Open Knowledge Foundation.

 

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Ebook Interoperability

The European and International Booksellers Federation has commissioned a study on interoperability of digital formats of ebooks, now also available online (On the Interoperability of eBook Formats; Prof. Christoph Bläsi | Prof. Franz Rothlauf, Johannes Gutenberg-Universität Mainz – Germany).

Interoperability means doing with the ebook what you do with regular books: reading them how and where you want.

The EPUB 3 format delivers increased interoperability. The problem is not the technology of the formats, but (a) proprietary formats, which generate closed “ecosystems”, (b) the DRM that protect those ecosystems.

Even with DRM, interoperability is possible. Even here, therefore, the problem is one of wanting it, not one being able to obtain it.

The study looks at the two systems that dominate the market: those of Amazon and Apple.. They, for now, call the shots and dictate how and where we can read regularly purchased ebooks (what we are buying from them, however, is not that clear).

A passage from the preface by Neelie Kroes (Vice-President of the European Commission, in charge of the Digital Agenda) can be taken on trust:

“Interoperability is a major requirement to build a truly digital society. This applies to ebooks too. When you buy a printed book it’s yours to take where you like. It should be the same with an ebook. You can now open a document on different computers, so why not an ebook on different platforms and in different apps? One should be able to read one’s ebook anywhere, any time on any device”.

 

 

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First-Sale Doctrine

From the website of the Stanford Law Review, written by Clark Asay, on the recent ruling by the U.S. Supreme Court on the subject of “first-sale doctrine” for second-hand books printed and lawfully purchased abroad, and re-imported into the USA.

The Court held six to three that the first-sale doctrine allows importing physical books, lawfully made and acquired abroad, into the United States for resale without violating a copyright owner’s distribution right.

The extension of the solution to ebooks is doubtful.

For ebooks purchased from the online services of the usual suspects, is there a first sale or are we all licensees?

The issue is hot, let’s hear from you!

 

 

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Net Neutrality

Whoever distributes ebooks distributes digital content. Digital content transmitted via internet pays a toll to physical telecommunications networks. This is why the destiny of the telecom industry, the digital content distribution industry and the publishing industry are intertwined.

Net Neutrality is one of the icons for defenders of freedom on the internet. The internet was born neutral with respect to the bytes that circulate through it (it doesn’t examine them, it sends them around divided into packets), but when the bytes related to a certain type of digital content multiply, and have a remarkable and differentiated value, how can we resist the temptation (some say the need) to regulate traffic, to discriminate in the payment of tolls, to take a peek at what is passing to see if it is possible to get hold of some of that circulating value?

And if I am simultaneously a telecom and a distributor of digital content, and perhaps also a producer of this content at the same time, how can I resist the temptation to facilitate the movement of my content more than that of my competitors?

This is why for some time the defence of Net Neutrality has been invoked. It keeps an eye on the telecoms. And look at the way Deutsche Telekom seems to break the taboo. Via the flat rate. Those who download more data are disadvantaged (they pay more, download slower). Which would not be news to us if we did not suspect (I’m not sure whether it’s only a suspicion or already an established reality) that if the user downloads content distributed by DT itself then it continues to apply the flat rate. The telco’s bytes travel rather better than those of its competitors. Bye Bye Net Neutrality.